Beirut

Più volte ho sentito i miei figli ripetere la lezione di storia sui fenici: Tiro, Sidone e Biblo erano splendide città dove gli artigiani inventarono la porpora e da cui commercianti e avventurieri partirono a bordo delle navi di cedro, simbolo del Libano, per esplorare il Mediterraneo e fondare grandi colonie come Cartagine.

Finalmente arriva l’occasione di visitare il Libano e pochi giorni fa io e Mario atterriamo a Beirut. Lo spettacolo appare desolante, caotico e contraddittorio. Palazzi crivellati di colpi, fatiscenti e talvolta parzialmente crollati sono tutt’ora abitati e si alternano a edifici moderni e lussuosi. Lungo le vie sono numerose le postazioni militari e il filo spinato corre lungo quasi tutti i muri. Habibi, habibi si ripetono con sorrisi e stringendosi la mano, ma appena salgono in macchina non esistono più regole se non una: è meglio non reagire a nulla perché i più sono armati e potrebbero sparare. I minareti sfilano veloci dal finestrino e il richiamo alla preghiera si diffonde nell’aria tra le croci delle chiese adiacenti alle moschee. Le donne velate con abiti lunghi e scuri muovono un passo affrettato accanto a ragazze in jeans e maglietta che camminano distrattamente mandando messaggi al cellulare. I motorini guidati da bambini seduti davanti ad uno o due adulti, sfrecciano in tutte le direzioni tra le auto clacsonanti. Nessuno ha il casco o la cintura e talvolta negli incroci soffocati dal traffico, ci sono vigili dei quali ci si accorge solo dopo che si è passati: lui si lamenta, l’autista sorride, habibi, habibi… ed è già il turno del trasgressore successivo, senza che nessuno si sia fermato o abbia dato la precedenza.

Beirut appare come una polveriera: innocua senza una scintilla, esplosiva se la inneschi. Un apparente, fragile equilibrio che nessuno osa toccare.

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