About Mario

Oltre ad occuparmi di rifiuti per mestiere, mi intrigano la mobilità ciclabile e quella elettrica. E di conseguenza il viaggiare, da cui sto diventando sempre più dipendente

Un giorno di ordinaria follia

La drammatica condizione in cui versano molte linee ferroviarie utilizzate dai pendolari in Lombardia sta facendo venire a molti la tentazione di riprendere in mano l’auto. E i recentissimi crolli del prezzo del petrolio potrebbero ahimè contribuire a questa nuova tendenza. Peraltro la sensazione di chi bazzica Milano quotidianamente è quella di una certa diminuzione del traffico veicolare rispetto ai picchi degli anni ’90, grazie ad una serie di lodevoli iniziative tra cui l’efficiente servizio di bike sharing, le piste ciclabili, l’Area C. E sicuramente anche ai costi dei combustibili e della gestione dei veicoli in generale, che hanno portato molte persone a sbarazzarsi della seconda auto per utilizzare i comodi servizi di car sharing. Anche i dati ufficiali confermano una rilevante diminuzione dei veicoli circolanti in città.

Eppure Milano sa ancora sorprendere, soprattutto quando si affronta il micidiale cocktail di pioggia, giornate prenatalizie, cantieri per lavori vari. E tu invece, fiducioso in questo presunto miglioramento della viabilità, caschi nel tranello e ti trovi ad impiegare due ore e mezza per percorrere poco più di 50 km, con le ultime centinaia di metri prima della meta percorsi a ritmi al di là di ogni possibile immaginazione. E mentre osservi gli alberelli della LEAF che crescono inesorabilmente, il ricordo non può che andare al mitico “Un giorno di ordinaria follia”  con Michael Douglas.

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Sicuramente rimanere piantati in mezzo al traffico con un’elettrica ti fa sentire leggermente meno in colpa, visto che quantomeno non stai contribuendo ad impestare l’aria. E poi c’è il vantaggio di non dover perdere altri minuti alla ricerca di un improbabile e carissimo posteggio, visto che nel caso specifico la colonnina si trovava esattamente sotto al posto dove mi dovevo recare.

Il pensiero va però all’ipotesi di potere accedere, con i mezzi elettrici, alle corsie preferenziali per i mezzi pubblici, come avviene ad esempio in Norvegia. Certo sarebbe bello, anche se le paralisi serie come quella che ho vissuto non lasciano scampo neanche a queste ultime, ma rimango convinto che non sia la strada giusta. Lo sviluppo della mobilità elettrica deve essere incentivato in termini sostitutivi rispetto a quella tradizionale, ma non deve diventare un’alibi per tornare ad incoraggiare la mobilità privata a scapito di quella pubblica o ciclabile. D’altronde ad Oslo le corsie preferenziali sono ormai intasate dai numerosissimi veicoli elettrici, con grande gioia dei conducenti (e passeggeri) dei mezzi pubblici. E questo non va bene.

Osare sempre di più

L’appetito vien mangiando, e dopo aver acquisito un po’ di esperienza è normale provare ad azzardare di più nella sfida con l’autonomia di percorrenza. Questa volta si tratta di 110 km, con un profilo altimetrico complessivamente positivo, ma che prevede il maggiore dislivello (circa 500 m) concentrato negli ultimi 20 km. E’ dunque innanzitutto imprescindibile ricaricare presso la destinazione per poter rientrare a casa, ma soprattutto, rispetto all’altra esperienza simile, qua non si può semplicemente girare indietro lungo la salita, visto che rimarrebbero appunto 90 km quasi completamente in piano. Inoltre il tutto avviene nel Deserto dei Tartari della mobilità elettrica, il Piemonte pressoché privo di colonnine pubbliche.

10710435_10205233455620151_5806695770878883097_oNissan propone sul suo sito un pianificatore di itinerario che, tenendo conto anche dell’altimetria, indica se la cosa è fattibile. Il responso è negativo, con una previsione di esaurimento della carica addirittura prima di affrontare la salita finale. La cosa è poco incoraggiante, ma mi rincuora verificare che anche un altro itinerario, già da me svolto senza problemi, viene dato come non fattibile. Qualche consiglio dal gruppo Facebook degli appassionati (che qualcuno a casa mia paragona ai famosi alcoolisti anonimi), la certezza di poter ricaricare “in amicizia” presso la destinazione e si parte, tra gli sfottò di chi già dichiara che non ci verrà a recuperare…

E’ domenica mattina e l’occasione è buona per scegliere la strada statale che costeggia la sponda piemontese del lago Maggiore, tra i grupponi di ciclisti che, ormai in assetto invernale, sciamano su questa grande classica. L’auto non fa sorprese, e arriviamo a destinazione dopo il primo avviso di batteria scarica e il temibile annuncio “potresti non essere in grado di raggiungere la destinazione”, ma con ancora ben 7 km di autonomia residua!

La ricarica si rivela il punto dolente poiché avviene inevitabilmente in modalità lenta. Cinque ore consentono solo di arrivare a 8 tacche sulle 12 totali, ma confidando nella prima parte di discesa ripartiamo. Questa volta si rimane sull’autostrada, che concede un ultimo brivido. Un lungo tratto di salita, al quale generalmente non si fa caso, infligge un duro colpo all’autonomia residua, perché si tratta di 250 m di dislivello percorsi a 80 km/h. Arriviamo a casa con 11 km residui, i vetri che iniziano ad appannarsi, ma la soddisfazione di avercela fatta. Anche perché in caso contrario…

L’orgasmo del ciclista

Ricordo ancora, ai tempi delle mie prime uscite in bici da corsa, l’affermazione lapidaria di uno degli anziani del gruppo: “la discesa è l’orgasmo del ciclista!”

In realtà ho sempre pensato il contrario, essendo un appassionato di salite, e trovando le discese piacevoli sì ma in realtà molto impegnative a causa dell’inevitabile tensione, se si vuole provare a spingere un po’. Dunque per me il vero orgasmo del ciclista è la salita, anche perché è l’arrivo sull’agognata vetta a regalarmi le maggiori emozioni. Alla prima conquista del Mottarone poco che ci mancava che arrivassero i lacrimoni….

Il Mottarone, un luogo mitico della mia infanzia, ma non solo. Lì ho imparato a sciare, quando da Omegna si saliva a “fare un pomeridiano” immediatamente all’uscita da scuola, anche se nevicava grosso così. E lì ci continuo ad andare con la bici, almeno una volta all’anno, partendo da casa. Quasi 100 km in totale, rigorosamente dal lato di Armeno, dove le rampe iniziali ti tagliano letteralmente le gambe.DSCN1285

Dunque quale luogo migliore per testare anche le performance dell’auto elettrica in montagna, ed in particolare la rigenerazione della batteria in discesa? Con un navigatore d’eccezione, Luca, partiamo con la carica al 100% (12 tacche) e con il cavo Schuko nel bagagliaio, anche se non avrei idea di dove andare a ricaricare. L’idea è comunque quella di girare indietro qualora nel corso della salita la batteria dovesse avvicinarsi preoccupantemente a livelli di attenzione.

Invece le cose vanno meglio del previsto. Arriviamo in cima dopo 47,3 km, con 3 tacche e 15 km di percorrenza residua. DSCN1282Ma sappiamo che da quel momento si aprono le “praterie” della rigenerazione. E infatti è così. Le tacche risalgono a 5 e l’autonomia stimata schizza a 70 km. Giungiamo a casa con tre tacche, le stesse che avevamo in cima alla montagna, ma ben 47 km ancora disponibili.

La discesa è forse la situazione dove si apprezzano al massimo le differenze tra un veicolo elettrico e uno tradizionale. Grazie alla rigenerazione, infatti, l’auto elettrica riesce letteralmente ad infilare nella batteria una gran parte dell’energia potenziale accumulata nel corso della salita. E di conseguenza consuma pochissimo i freni, chiamati in causa solo nelle decelerazioni più brusche, e non si sente quella sgradevole puzza di bruciacchiato in fondo alla discesa. Nessuno spreco, insomma.

Un’auto tradizionale invece, innanzitutto brucia carburante anche in discesa (sì, perché il motore è acceso), e poi consuma pastiglie e dischi dei freni, anche se si cerca di utilizzare un po’ di freno motore.

Dunque ci sono tutti i buoni motivi per affermare, questo sì, che “la discesa è l’orgasmo… dell’auto elettrica…”

Pionierismo?

Purtroppo è ancora questa la parola da usare, se parliamo di mobilità elettrica in Italia. Di seguito la breve cronaca di una trasferta un po’ fuori dall’ordinario, che ha messo in luce tutte le difficoltà che bisogna ancora superare.

Oleggio-Piacenza sono esattamente 125 km, una distanza che non avevo ancora mai affrontato con una singola carica. Le condizioni sono ottimali, non serve il climatizzatore e complessivamente il percorso è in discesa. In autostrada non supero mai i 90 km/h! Arrivo alla colonnina esattamente quando parte la prima segnalazione di batteria scarica. In un test precedente avevo percorso quasi altri 30 km da quel momento al collasso totale (modalità tartaruga).20140902_091346

E qua inizia la parte divertente, che fa capire come l’improvvisazione regni sovrana per TUTTE le parti in gioco. Innanzitutto ENEL, che piazza le due colonnine di Piacenza in un modo curioso. Entrambe sulla stessa via, ma una delle due all’interno della zona a traffico limitato, sul cui cartello di accesso i veicoli elettrici non sono naturalmente menzionati. Va da sé che la colonnina fuori dalla ZTL è occupata abusivamente da due veicoli termici, e dunque non ho scelta.20140902_094133

Avvio la carica e chiamo subito i vigili per le due segnalazioni:

  • il fatto di essere entrato “abusivamente” nella ZTL per qualche decina di metri per giungere all’unica colonnina disponibile
  • la presenza di abusivi nell’altra

Sul primo punto mi invitano ad andare a richiedere un pass, presso un ufficio fortunatamente non lontano da lì (circostanza puramente casuale, quest’ultima). Sul secondo, un po’ scocciato, mi dice che “se hanno tempo” vedranno di attivarsi.

A ben guardare, però, qua tra gli improvvisatori entra in gioco il Comune. I due abusivi non hanno proprio tutti i torti. L’unica indicazione relativa al divieto di sosta è il piccolo cartello sopra alla colonnina, mentre a terra compaiono normalissime strisce blu. Infatti entrambe le auto mostrano bene in vista il regolare tagliando del pagamento della sosta. E il fatto che la colonnina sia contornata da biciclette non aiuta certo a capire bene di che cosa si tratti.20140902_091849

La nota positiva è la gentilezza della signora del’ufficio ZTL che mi ha fatto sul momento il pass giornaliero gratuito, fidandosi della mia autocertificazione. Pass su cui compare la targa del mezzo, ma assolutamente non il fatto che si tratti di un elettrico.

La lezione è che non si può avere fretta, visto che l’imprevisto è sempre dietro l’angolo.

Dopo una ricarica completa il rientro a casa è andato liscio come l’olio, senza la necessità di ulteriori rabbocchi, come invece avrei temuto, visto che stavo “risalendo” la pianura (e con l’elettrico si sentono anche i minimi dislivelli).

Qualche numero per chi fosse interessato. I 125 km sono “costati” 16 kWh assorbiti dalla colonnina ENEL. Dunque circa 0,13 kWh per percorrere 1 km, che equivale ad esempio a tenere acceso per 4 minuti un asciugacapelli da 2 kW. Volendo fare un confronto più consono, ad esempio con un’auto diesel, è come avere imbarcato l’energia contenuta in un litro e mezzo di gasolio. Efficiente!

Malati di Giappone

Molte sarebbero state le cose che avremmo voluto ancora raccontare, da questo punto di vista il Giappone fornisce un sacco di stimoli. Ma tre giorni dopo l’approdo a casa, e con ancora qualche strascico di jet lag serale, troviamo il tempo per una puntata a Palazzo Reale a vedere la mostra di Murakami, uno dei più importanti artisti giapponesi contemporanei. Una visione decisamente consigliata!

Io ne ho viste cose…

…che voi pendolari Novara-Milano non potreste immaginarvi, non solo treni ad alta velocità Shinkansen ma anche convogli locali sempre in perfetto orario, al largo del Mar del Giappone; e ho visto carrozze pulite da potersi sedere per terra e personale sempre gentile e sorridente. Ho visto aria condizionata funzionante e mai troppo alta né troppo bassa. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di rientrare in Italia.

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Questo post, liberamente tratto da Blade Runner di R. Scott, è dedicato a tutti i pendolari italiani, in particolare quelli della S6 Novara-Milano

Due buoni motivi

Ebbene in un mese e mezzo non siamo riusciti a vedere la sagoma conica del Monte Fuji. Al primo passaggio in treno eravamo tutti rintontiti dal fuso orario. Anche la mia andata e ritorno a Sendai non è stata fortunata da questo punto di vista, sempre avvolto nelle nuvole…

L’ultima speranza era riposta nel viaggio di avvicinamento a Tokyo in vista del rientro. La strada da Matsumoto punta infatti proprio verso di Lui, prima di arrivare alle sue pendici e piegare verso Est. Ma niente da fare, evidentemente ha deciso di lasciarci un motivo per ritornare nel Sol Levante. Il bel centro visitatori, anche questo deserto, è stato una magra consolazione.

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Ma il Giappone non vuole smettere di stupire, e si gioca una delle sue carte migliori. La planata sulla baia di Tokyo, dopo decine e decine di chilometri di urbanizzazione ininterrotta, è di quelle cose che ti lasciano senza fiato. Percorriamo tre volte il Rainbow Bridge per colpa del navigatore, colpa che gli viene subito perdonata.

Tokyo, ecco servito anche il secondo motivo!DSC_7673DSCN1202

Un intreccio di labirinti

Prima di arrivare ad Hakuba ci siamo fermati in una località con un Bosco Sacro dove vivevano i ninja. Scesi dalla macchina ci siamo avviati nella ricostruzione della scuola dove si allenavano e vivevano i ninja. I ninja erano monaci prima e guerrieri poi, molto abili nel nascondersi e così silenziosi da esser quasi invisibili. I ninja erano esperti a combattere con armi particolari (spade, mazze ferrate, shuriken…). La prima tappa è stata in un tiro a segno, dove ti davano sei shuriken, oggetti simili a stelle di metallo, con cui dovevi colpire un bersaglio. shuriken-icon

Finito i tiri ci siamo diretti alla casa dei ninja. Un signore ci ha invitato a togliere le scarpe. Un attimo dopo eravamo già dentro. Porte scorrevoli nascoste nei muri, stanze sottosopra, ante girevoli, labirinti intrecciati ecc. continuavano a giocarci scherzi. All’inizio sembrava una cosa molto semplice trovare l’uscita ma poi non è stato così. Ogni volta che cambiavamo stanza le porte erano sempre più difficili da trovare ed uscire dai labirinti non era semplice. Molto spesso dopo un lungo percorso ci ritrovavamo nella stanza iniziale e dovevamo ricominciare.

imagesQuando finalmente siamo riusciti ad uscire ci siamo concessi un piatto di soba, spaghetti di grano saraceno cotti in acqua e salsa di soia e serviti con tempura di verdure.

Prima di ripartire abbiamo fatto una passeggiata nel Bosco Sacro in mezzo a due file di cedri secolari che conducevano al tempio. Le piante più antiche avevano i paramenti sacri del tempio.

Pietro

Il profumo dell’avventura

E poi ti capita, dopo un mese e mezzo senza incrociare connazionali, di incontrarne tre molto speciali, naturalmente nella tappa più sperduta di tutto il giro. Speciali perché arrivano da Lisbona, anzi dal Cabo da Roca, il posto più a Ovest del continente Europeo. Ma ci arrivano in auto, attraverso Russia, Kazakistan, Siberia e Corea del Sud. Si tratta di un raid di cui avevo sentito parlare, sponsorizzato da Peugeot e parte di un progetto ancora più ampio che comprende anche percorsi in bicicletta in solitaria. Il leader del gruppo si chiama anche lui Andrea, e i racconti delle sue imprese in giro per il mondo lasciano a bocca aperta l’altro Andrea e i suoi fratelli, che non smettono di fargli domande a raffica. Anche loro però hanno parecchie cose da raccontargli. Chissà che non stia nascendo qualcosa all’interno di queste tre testoline?

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Gli incontri tra italiani in vacanza sono sempre piuttosto “rumorosi”, mettiamola così, specialmente se le cose da raccontare sono tante. Se a questo aggiungiamo che ci siamo assembrati sulla scala a causa di una connessione wifi piuttosto carente, e che erano già le 10 passate, sui volti dei giapponesi è iniziato a trapelare un certo disagio, sempre ben celato naturalmente. Siamo dunque rientrati nei ranghi e domani ogni gruppo riprenderà la sua strada, noi in vista del rientro verso Tokyo, loro verso la vetta del Monte Fuji. Ma non prima di esserci citati nei rispettivi blog.

Peccato solo di non poterci aggregare al ricevimento finale previsto presso l’Ambasciata italiana di Tokyo il 31 Agosto. Saremo già in Italia.

Onsen, onsen e ancora onsen

DSC_7595L’ultima locanda dove siamo approdati, a Norikura Kogen, è l’apoteosi dell’onsen. Questa vera e propria istituzione nazionale, sulla quale ci siamo già soffermati in precedenza, si manifesta qua con due vasche, una interna e una esterna (rotenburo), ma soprattutto con un’acqua straordinaria: lattiginosa e dall’intenso odore di zolfo, non è eccessivamente calda come a Nozawa, e ti lascia una pelle favolosamente vellutata. C’è un detto secondo cui tre giorni di immersioni in queste acque metterebbero al riparo dalle malattie per ben tre anni.

La vasca dell’onsen, sempre rigorosamente separata per uomini e donne, può essere anche piccolissima, poco più di una vasca da bagno, ma il contesto e il rituale sono sempre i medesimi. DSC_7600C’è infatti un’anticamera dove ci si spoglia, seguita dal locale con la vasca, contornato da alcuni rubinetti e doccette. DSC_7596Sgabelli di plastica e piccoli secchielli per l’acqua completano la dotazione, poiché la regola fondamentale prevede che ci si lavi accuratamente tutto il corpo prima di entrare nella vasca.

Per tornare alla nostra locanda, le stanze sono in stile giapponese, con tavolino basso, tatami e futon, e naturalmente prive di servizi igienici privati. Quelli in condivisione constano semplicemente di un lavandino e due wc. La doccia non c’è, poiché il luogo in cui ci si lava è proprio l’onsen. Dunque l’onsen non è come la spa di un albergo, dove uno decide se andarci o meno. Bensì parte integrante dei servizi, in quanto luogo dove ci si lava il corpo, ci si rade e ci si spazzola i denti. Mi sono infatti sentito un po’ fuori luogo a farmi la barba nel normale lavandino…DSC_7555